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Solandieu pseudonimo del narratore, poeta e storico Albert Duruz, nasce nel 1870 a Estavayer-le-Lac, nel Canton Friburgo e si stabilisce a Sion, nel Valais nel 1888. Attento osservatore e innamorato del suo paese di adozione pubblica molte opere sulle bellezze del Cantone e sulle sue leggende, in particolare il libro “Légendes valaisannes” (1919) di cui proponiamo, nella nostra rubrica Antologia, la leggenda: “Les Chamosards et les Fées de Gru”.
Nella sua prefazione il frate benedettino don Sigismondo de Courten scrive che le storie della tradizione vallesana raccolte da Solandieu nascono da “fatti storici trasformati e trasfigurati nel corso dei secoli; credenze religiose degenerate in superstizioni; rovesciamenti sismici apportatori di catastrofi; fenomeni della natura incomprensibili al volgo; tradizioni popolari di origine misteriosa, tali sono le sorgenti da cui l’immaginazione popolare ha, in tutti i tempi, tratto ispirazione per le sue “leggende”.

Gli Chamosard e le fate di Gru

Addossato alla parete della rocca del Gru, sopra i villaggi di Ardon e Chamoson, si trovano le rovine del bastione di un forte scomparso. Questo bastione, che un tempo doveva essere un posto di sorveglianza avanzato sulla strada di accesso, alla sua nascita ospitò esseri sconosciuti, che vivevano al di fuori di ogni civiltà. I romani della pianura lo chiamavano Castellum Fatarum (Castello delle Fate). Queste, maligne e malvagie, come tutte quelle che abitano nel settentrione, uscivano la notte rovistando nei vigneti e nei campi circostanti danneggiando i raccolti. Tanto che i coloni romani, appena immigrati, decisero di sbarazzarsi di questi ospiti scomodi espellendoli.

Ma le fate, saputolo, andarono a trovare gli Chamosard e proposero loro un accordo che avrebbe portato grandi benefici a tutto il paese. Si impegnarono, se fosse stato loro promesso, a lasciarle vivere in pace nel loro ritiro, di canalizzare e ricoprire il Rodano in tutta la sua estensione sul territorio degli Ardonnini e degli Chamosard, assicurando che con quest’opera gigantesca, avrebbero reso questa regione la più prospera di tutta la valle. L’offerta era allettante ma poteva nascondere alcuni trabocchetti, cosa che spinse i coloni a rifiutare qualsiasi transazione.

Le fate tornarono quindi al loro castello di pessimo umore, giurando che se ne sarebbero andate contro la loro volontà e che la loro partenza forzata sarebbe stata seguita da terribili rappresaglie.

Una mattina all’alba, il castello delle fate fu assediato da una schiera di guerrieri armati di lance e mazze. L’assedio impedì ogni via di fuga ad eccezione di un corridoio ripido dove, fino ad allora, solo aquile e avvoltoi avevano osato cimentarsi.

Ma le fate avevano previsto l’imboscata e avevano preso tutte le contromisure necessarie. Non appena videro gli Chamosard scalare la rocca di Gru, diedero fuoco a mucchi di abeti resinosi ammassati tutto intorno al loro bastione il cui fumo nero ed acre non tardò a nascondere l’intero castello. I guerrieri sorpresi da questo stratagemma non osarono né avanzare né ritirarsi, circondati com’erano da pericolosi precipizi. Così rimasero fermi finché, dopo quello che sembrò loro un tempo lunghissimo, cominciarono a vedere chiaramente intorno a loro. Così, uno alla volta, con le clave in mano, avanzarono verso la fortezza delle fate che trovarono deserta; tutto era scomparso, come se in quei luoghi abbandonati non fosse mai vissuta anima viva. L’incendio aveva distrutto tutto ciò che le fate non erano riuscite a trasportare nella loro audace fuga attraverso il corridoio che avevano necessariamente dovuto attraversare per raggiungere la pianura e un rifugio più ospitale.

Gli Chamosard tornarono a casa un po’ delusi da un’avventura che non aveva porto loro né trofei né gloria. Ma da quel giorno in poi i loro raccolti furono rispettati e poterono godere in pace i frutti del loro lavoro.
Le minacce di rappresaglia delle fate romane non furono del tutto senza effetto.

Per lungo tempo le montagne della terra degli Ardiani furono testimoni di scene e catastrofi che, ogni volta, evocavano il ricordo di fate malvagie. Così, qualche secolo dopo, una banda di ladri proveniente dall’altra parte delle Alpi, penetrò nella montagna di Chamoson, si impadronì della stalla ed uccise tutti i vergai dell’alpeggio, salvando solo la vita del pastore a cui i briganti si contentarono di cavare un occhio, perché avevano bisogno di lui per condurli attraverso i sentieri difficili e per guidare il gregge perché questo, aveva detto il pastore, avanzava solo se lui camminava in testa suonando la sua cornamusa o tuba.

Arrivati al Plan de la Forclaz, da cui si scende nella valle dell’Iserne attraverso l’Alpre Dorbon, il gruppo dovette fare una sosta riposarsi, pausa resa necessaria dal passaggio per sentieri ripidi, tortuosi e lunghi.

I saccheggiatori, stremati dalla fatica e storditi dall’acquavite che avevano bevuto in abbondanza, caddero in un sonno profondo all’ombra degli abeti rachitici. Era domenica.

Il pastore ne approfittò per correre velocemente a Haut de Cri, nel luogo chiamato Plan Merdasson, dove lanciò dalla sua tuba delle grida di allarme che furono udite dagli Chamosard mentre uscivano dalla messa nella chiesa di Ardon. Questi scalarono la montagna in fretta e furia. Raggiunsero presto la stalla e i ladri sulle Alpi Contheysane. Inferociti alla vista dei cadaveri dei loro concittadini, gli sfortunati mandriani massacrati dai briganti, sgozzarono a loro volta tutti gli uomini della banda di predoni e riportarono la mandria al pascolo.

Liberamente tradotto: MdP