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La rubrica Antologia nel suo viaggio attorno alla letteratura svizzera, propone un estratto delle “Réflexions sur le divorce” di M.me Suzanne Curchod Necker, nata a Crassier (Vaud) nel 1739, si trasferì poi in Francia dove sposò, il finanziere svizzero Jacques Necker, ed a Parigi aprì il suo salotto, l’ultimo dell’Ancien Régime. Scrisse “Mémoire sur l’Etablissement des hospices” nel 1786 e le “Réflexions sur le divorce” nel 1794 di cui abbiamo preso dei brani iniziando dall’introduzione scritta dallo stesso editore De Lescure che pubblicò l’opera nel 1881. Oggi riportiamo la seconda parte dello Studio letterario e morale su Madame Necker, introduzione al testo scritta dallo stesso De Lescure che traccia la vita dell’autrice, di donna colta e letterata, dalla sua giovinezza fino alla sua vita di moglie e patrona del suo salotto parigino.

Riflessioni sul divorzio

Studio letterario e morale su Madame Necker – seconda parte

Non potremmo prendere in prestito da un giudice e da un pittore migliore di Sainte-Beuve il primo schizzo, di un sapore così locale e di una così piccante somiglianza, che si potrebbe credere che sia stato fatto dal vero, di Suzanne Curchod, nata nel piccolo villaggio di Crassier o Crassy, posto sul confine tra la Francia ed il Vaud, il 2 giugno da Louis-Antoine Curchod e dalla signorina d’Albert de Nasse, sua moglie.

“Per meglio apprezzare M.me Necker, che a Parigi non fu che un fiore trapiantato, è opportuno vederla nella sua freschezza originale e nella sua terra natale. Suo padre pastore o ministro del santo Evangelo; sua madre, originaria della Francia, aveva preferito la sua religione alla sua patria. Allevata e nutrita in questa vita di campagna e di presbiterio dove alcuni poeti hanno ambientato i loro più incantevoli idilli, e dalla quale trasse, con le virtù della casa, il principio di studi seri. Era bella della bellezza pura e virginale che ha bisogno della prima giovinezza. Il suo viso lungo e leggermente dritto era animato da una freschezza abbagliante e addolcito dai suoi occhi azzurri pieni di candore. La sua figura snella aveva una discreta dignità, senza rigidità e senza pretese. Ecco come si appariva a Gibbon durante un soggiorno a Losanna.”

Il futuro storico dell’impero romano fu (…) così curioso nelle idee quanto placido nei sentimenti. Era audace e attivo solo intellettualmente e fu per fargli smaltire, secondo le sue stesse parole, in un paese ponderato ed in un’aria grave e metodica, la sua prima ebbrezza mentale per la quale aveva abbracciato precocemente il papismo, che avrebbe abiurato non meno rapidamente, che suo padre lo aveva inviato da Oxford a Losanna. Non vide impunemente colei che chiamavano soltanto la bella Curchod (…). Si introdusse nel numero degli adoratori platonici che facevano cerchio, nelle assemblee e nelle commedie, attorno alla giovane e spiritosa incantatrice e la sera, rientrando, scrisse sul suo diario questa nota sentimentale e classica: “ho visto la signorina Curchod. Omnia vincit amor, et nos cedamos amori.” Così, contrariamente a tutte le previsioni della saggezza umana (…) il soggiorno di penitenza a Losanna divenne un soggiorno di delizie; (…). Questo è il ritratto che Gibbon traccia nelle sue Memorie di colei che per prima lo iniziò ai piaceri innocenti e agli onesti propositi dell’amore platonico. Anche se tracciato da un innamorato, e per un buon motivo, (lui non era uomo da averne uno, né lei era ragazza da sopportarne un altro), il ritratto è, a questa data, tanto fedele che lusinghiero.

“Suo padre, nella solitudine di un villaggio isolato, si impegnò a dare un’educazione liberale e colta alla sua unica figlia. Ella superò le sue speranze per i suoi progressi nelle scienze e nelle lingue e, nelle brevi visite che aveva fatto ad alcuni dei suoi parenti a Losanna, la mente, la bellezza e l’erudizione della signorina Curchod erano stati oggetto di applausi universali. Le storie di tale prodigio avevano suscitato la mia curiosità: ho visto e ho adorato. L’ho trovata sapiente senza pedanteria, animata nella conversazione, pura nei sentimenti ed elegante nei modi; e questa prima improvvisa emozione non fece altro che rafforzarsi con l’abitudine e l’osservazione di una maggiore familiarità. Lei mi ha permesso di farle due o tre visite a casa da suo padre. Vi ho passato alcuni giorni felici sulle montagne della Franche-Comté ed i suoi genitori incoraggiavano onorabilmente questo rapporto…”

Questo flirt, come dicono gli americani, durò abbastanza a lungo, alla maniera svizzera, vale a dire con il progresso silenzioso e metodico di una navigazione attraverso le limpide acque del Tenero, senza incidenti, senza accidenti, senza tempeste e dove si viaggia per il piacere di viaggiare, piuttosto che arrivare. Poiché tutto finisce a questo mondo, l’idillio doveva approdare naturalmente, ad un certo punto, al porto delle nozze. E questo finale non era ripugnante per Gibbon che, se non aveva particolare fretta di concludere, era tuttavia troppo razionale e troppo onesto per non accettare le conseguenze dei suoi principi. Ma i progetti di unione che tennero cinque o sei anni in sospeso la libertà della signorina Curchod e la sua, incontrato nel giorno decisivo, così a lungo rimandato, l’ostacolo del veto paterno, e, dopo un’adeguata resistenza, Gibbon si rassegnò filosoficamente al suo destino. “Sospirò come un amante e obbedì come un figlio”, spezzando, non senza rammarico, dei legami che non furono che epistolari e prendendo congedo nell’ultima di queste lettere, che terminava quasi invariabilmente con la seguente formula: “Ho l’onore di essere, Signorina, con i sentimenti che sono la disperazione della mia vita, il vostro grandemente umile e obbediente servitore.” (…)

Anche se la signorina Curchod deve aver provato per questa rinuncia un certo dispetto e una certa delusione, non si mostrò troppo irritata, e quando, più tardi, divenuta la signora Necker, ha gustato in un matrimonio, secondo il suo spirito e secondo il suo cuore, tutta la felicità di cui era così degna, perdonò volentieri Gibbon di averle restituito la sua libertà e si compiaceva perfino di mostrare maliziosamente la sua clemenza nel riceverlo a Parigi, nel suo salotto, sistemandolo nel numero degli ammiratori della sua fortuna, ruolo al quale si è prestato lui stesso con molta buona grazia.

Non era l’unico che lei aveva affascinato e sul quale lei ebbe il piacere, in attesa di abdicare in favore di un padrone, di esercitare il suo impero. Prima di disturbare il cervello di Gibbon, per quanto era possibile, lei aveva distratto dalle sue meditazioni un uomo ancora più serio di Gibbon e ne aveva turbato l’equilibrio tanto cercato e talvolta perduto dopo aver creduto di averlo trovato, tra la sua ispirazione e la sua ragione, tra la sua mente e il suo cuore, l’originale uomo benevolo, il celebre fisico filosofo del suo paese, Georges Le Sage. Egli tentò di allacciare con lei il romanzo della sua quarantina e di farle apprezzare, in vista di un risultato legittimo, questo commercio di ingenua civetteria, da un lato, ragionevole tenerezza, dall’altro, questa miscela in dosi ponderate di amore e di amicizia fatti per accarezzare la testa senza troppo solleticare il cuore, che aveva, in ragione di questo doppio ingrediente, battezzato con il nome più strano che grazioso, di amorizia.

Suzanne Curchod, la quale non era rimasta indifferente al serio richiamo di un matrimonio con Gibbon, sembra solo essersi divertita dell’onorevole tentativo, ma un po’ singolare come lui, del quarantenne Le Sage e delle sue velleità matrimoniali, che dirottò, sorridendo, verso una delle sue amiche, Sophie K…, come risulta dal diario del filosofo il 27 dicembre 1762.

Allora lei aveva già ventidue anni, e, nel 1764, stava per varcare la soglia del ventiquattresimo anno senza aver ancora potuto approdare al porto desiderato, e senza aver potuto trovare un destino degno delle sue attrattive, dei suoi meriti, dei suoi meriti. Aveva perso uno dopo l’altro suo padre e sua madre, e questa doppia perdita le faceva tanto più sentire il bisogno di un sostegno. Tutti erano interessati a questa bella orfanella, che, seguendo una bella espressione di un’eroina della sua connazionale la Signora de Charrière, “non sapeva cosa fare del suo cuore né della sua mente”, risparmiando l’uno senza scopo e spendendo l’altra senza profitto in queste testimonianze e in questi brillanti esercizi di talento pedagogico che non le permettevano che di intravedere i sentieri ingrati e gli orizzonti brevi della vita di un’istitutrice. Eppure l’occasione favorevole e decisiva nacque proprio dalle circostanze più inattese. Non è invano e per i soli applausi dalla Compagnia della Primavera e insegnanti e studenti dell’Accademia di Losanna, suoi ascoltatori incantati, che la figlia del pastore di Crassier articolò queste lezioni o presiedette questi concorsi sulle lingue antiche la cui scena era molto spesso il Vallon des Eaux, nei dintorni di Losanna, e lo scranno un pavimento di verzura all’ombra di un ciuffo di alberi. Lo spettacolo attrasse una donna della società parigina, la Signora de Vermenoux, che era stata attratta dalla fama e dalla simpatia generale. Lei prese a benvolere quella che Voltaire, più tardi, con allusione ai suoi trionfi accademici, chiamava la novella Ipazia, e la riportò con sé a Parigi. Questa vedova ricca e giovane, annoiata della sua libertà, ancora esitava a sacrificarla ai desideri del signor Necker, già ricco banchiere, membro della Compagnie des Indes e dell’età, in quel momento, di trentadue anni. Fu non appena il corteggiatore ebbe visto a Parigi, da Madame de Vermenoux, la signorina Curchod, che, in attesa di meglio, la serviva come segretaria e dama di compagnia, che i suoi i tributi cambiarono oggetto. Poi, senza che vi fosse il dispetto della benefattrice, né l’ingratitudine della protetta, né l’infedeltà dell’amante, le cose virarono, in questa bella e onesta commedia della variazioni del sentimento, all’esito naturale di un matrimonio che non fece che persone felici (dicembre 1764).

trad. MdP