Questa rubrica si propone un viaggio letterario sulla Svizzera, la sua cultura, la sua natura e le sue istituzioni, su come è stata percepita e conosciuta al di fuori dei suoi confini e come lei stessa ha visto il mondo che la circondava. Di volta in volta un racconto, un estratto di un romanzo o di un saggio ci offriranno uno spaccato di queste visioni del mondo.
Il primo racconto che proponiamo, della scrittrice italiana Ada Negri (1870-1945), ci porta nei primi anni del ‘900, intorno al 1915, quando in Svizzera il divorzio era già in vigore dal 1907 mentre in Italia si dovrà aspettare fino al 1970. La possibilità di sciogliere un matrimonio finito era agognata da molti che, desiderosi di poter godere di un diritto in patria negato, affrontavano, con le loro famiglie le difficoltà di una tale impresa. La novella “Gli Adolescenti” che viene proposta in questa occasione, è tratta dalla raccolta “Le Solitarie”.
Ada Negri, nata a Lodi (Italia) nel 1870 è stata poetessa e scrittrice. Insegnante di scuola elementare, grazie alla raccolta “Fatalità”, pubblicata nel 1890, che le diede grande notorietà, le fu conferito – per decreto del ministro Giuseppe Zanardelli – il titolo di docente per chiara fama presso l’Istituto superiore “Gaetana Agnesi” di Milano, cosa che le consentì di trasferirsi nel capoluogo lombardo.
Si sposò nel 1896 con l’industriale Giovanni Garlanda con cui ebbe due figlie: Bianca e Vittoria (morta ad un mese di vita). Le sue vicende personali influirono profondamente sulla sua produzione poetica.
Nel 1913 Ada Negri si separò dal marito e si trasferì a Zurigo (Svizzera) dove rimase fino all’inizio della Ia Guerra mondiale. In questo periodo scrisse “Esilio” (pubblicato nel 1914) e la raccolta di racconti “Le Solitarie” (pubblicata nel 1917), opera attenta alla tematica femminile.
Pubblicherà anche una raccolta di odi alla patria in seguito alla Ia Guerra mondiale ma il tema principale della sua poesia, fino alla fine della sua produzione, saranno i sentimenti e la memoria. Muore nel 1945.
Ada Negri
Gli Adolescenti
Le due voci avversarie giungevano fino alla camera della fanciulla, urtandosi come spade aguzze, già insanguinate in punta, nel pugno di due esperti duellanti.
Quella dell’uomo, bassa, ostinata, senza alzarsi mai di tono, ripeteva accuse ed ingiurie d’una trivialità che esasperava persin l’aria e le pareti. Quella della donna saliva e scendeva a sbalzi, scoppiava in stridule risate convulse, a volte netta e crudele in frasi che si piantavano, sillaba per sillaba, nel cuore nemico, chiodi in un muro: a volte gutturale, morente, soffocata nella gorgia da una mano di ferro.
Antonella era, purtroppo, avvezza a quei litigi. Da anni, quasi ogni settimana ne scoppiava uno. La sua bionda puerizia s’era schiusa alla luce dell’adolescenza, e stava per rasentare le soglie della giovinezza, respirando a fatica in quell’atmosfera di odio coniugale senza perdono, senza nobiltà, senza tregua. Ella preferiva, del resto, l’eco fischiante della baruffe ai lunghi silenzi che le seguivano e alle pesanti ore dei pasti, durante le quali i due portavano a tavole i loro gesti macchinali e il loro volto chiuso; e non aprivan bocca se non per rivolgere qualche distratta domanda alla fanciulla.
L’acerba creatura, già conscia, allargava sull’uno e sull’altra gli occhi penetranti, raccontando storielle di scuola, chiacchierando volubilmente con istintiva furberia, senza attender risposta, convinta e orgogliosa di “sostenere una parte”. E ingoiava in fretta il dolce per scappare al pianoforte; e ne strappava tempeste di accordi.
Era certissima, oh, si!…che suo padre e sua madre non avrebbero mai fatto divorzio. Ne sapeva anche il perché: essi non avevano avuto il pudore di nasconderlo. Quel perché la opprimeva come un rimorso, movendole quasi a colpa il fatto d’essere nata. – E’ per te, per te, bambina mia – le mormorava il padre accarezzandole i capelli.
-E’ per te, bambina mia, singhiozzava la madre, serrandola al petto.
Forse non era vero, forse nessuno dei due osava confessare a se stesso la ragione essenziale: che, cioè, entrambi eran giunti a non poter più vivere se non per l’acre bisogno di ferirsi, di dilaniarsi a vicenda, di affilare in punte acutissime d’odio quello che un giorno era stato amore, o illusione d’amore.
Tanto vi era avvezza che nemmeno quella mattina Antonella si scompose nell’udire le voci violente. Ebbe soltanto un breve sorriso sarcastico, e continuò impassibile a spazzolarsi, dinanzi allo specchio della cameretta piena di luce, i lunghi capelli color ciuffo di pannocchia.
Quella strana tinta arsiccia era il suo orgoglio. Intrecciò le dense masse, le ravvolse in due giri intorno al capo, secondo la foggia russa. La raggera d’un rosso fosco rendeva più bianco il viso: viso di donna più che di fanciulla.
Chiudendo con un secco “tic” i ganci automatici della camicetta candida e della sottana blu, si mise a canterellare. Si mise – con forza per null’altro intendere, per interporre una barriera fra sé e le due belve che si azzannavano a pochi passi da lei, – a pensare che la mattina di maggio era velata, ma dolce, che non sarebbe piovuto, che i pomari dello Z erano ancor tutti in fiore, che Nellie Altwegg l’aspettava lassù, e lungo la strada ella avrebbe incontrato Petruccio.
“Petruccio, Petruccio” modulò sul ritmo di un tango argentino; mentre di là veniva il fracasso d’una sedia buttata in terra, di due o tre rauche imprecazioni, e il mugolio disperato della donna fuor di sé.
Poi, la porta d’uscita sbattè sui cardini.
Il padre se n’era andato, certamente, succedeva sempre così. Pochi minuti dopo, dalla finestra, Antonella lo scorse camminar lungo il marciapiede, con le mani nelle tasche e il mento sul petto, come uno che abbia freddo.
E nella casa fu un gran silenzio.
Fine prima parte