Il ritiro del decreto Salva-Roma costituisce una buona notizia ma è al tempo stesso l’espressione più chiara della caoticità del quadro politico italiano.
Il decreto era stato, inizialmente, concepito per evitare il fallimento del Comune capitolino, alle prese con un debito esploso e non sanabile nè con le sole risorse dei cittadini romani né con improbabili piani di rientro. La soluzione è stata trovata così, come per altri comuni (cfr. Venezia e come potrà accadere per Torino e Milano) scaricando gli oneri del risanamento sulla fiscalità generale. A questa originaria anomalia se ne è aggiunta subito un’altra, rappresentata dall’assalto di una infinita litania di emendamenti che ha trasformato il Salva-Roma in un omnibus con tanti interventi a pioggia distribuiti tra luoghi, istituti e opere assai variegati.
Dinnanzi a ciò è intervenuto il Presidente della Repubblica chiedendo il ritiro del provvedimento, in cui erano stati aggiunti ben 90 commi ulteriori, che ne snaturavano la coerenza e lo rendevano ben altra cosa da quanto votato, peraltro con la fiducia, nell’aula parlamentare.
Letta ha proceduto in tal senso, ma, come nel giuoco delle tre carte, ha prontamente deciso di trasferire buona parte del Salva-Roma nel “Milleproroghe”. In pratica si è saltati da un treno straordinario ad un altro treno straordinario, facendo una rapida opera di cosmesi e senza alcun reale passaggio parlamentare.
Parallelamente a questo, dopo l’approvazione della Legge di Stabilità, il Consiglio dei ministri ha licenziato un testo che contiene un saldo di oltre 6 miliardi di euro e che ha ad oggetto la riprogrammazione di una tranche importante dei fondi europei, altrimenti destinata a scadere e dunque ad essere restituita all’Europa per prendere la destinazione di altri Paesi membri. Si tratta di un intervento tutt’altro che trascurabile, perché rivolto a rendere più efficaci e più consistenti gli stimoli per la nuova occupazione e per la creazione di nuova imprenditoria giovanile; un pezzo dunque di strategia in materia di lavoro che non è finita nella Legge di Stabilità e che, ancora una volta, non ha trovato il tempo e lo spazio di una discussione parlamentare.
Il 2013 sta concludendosi con un vero e proprio ingorgo normativo, composto da decreti legge, sempre e comunque, definiti come urgenti, e, spesso addirittura sovrapponibili nei contenuti. Attività parlamentare non solo sul versante dei lavori in commissione ed in aula, ma persino su quello della mera conversione in legge.
Le Camere sono nelle mani dell’alta burocrazia e dei tecnici degli uffici istituzionali che strutturano e alterano le varie misure fornendo alla politica, in cerca di consenso, soluzioni sempre al limite, se non già oltre, la correttezza delle prassi.
Mentre il dibattito verte sulle necessità vere, ovvero dal mercato del lavoro al fisco, la quotidianità del Parlamento è composta di atti episodici e cuciti da “ingegneri della legislazione al dettaglio” (siamo a livello di mercato di quartiere: “decreti mortadella affettati per il cliente/parlamentare”).
I parlamentari “giuocano” nella predisposizione di migliaia di emendamenti che oscillano fra il manifesto politico e l’esigenza di dare rappresentanza compiuta a molteplici istanze da scaricare sul veicolo normativo di turno, senza andare troppo nel sottile.
Tra norme tecniche ed emendamenti più o meno abortiti gli spazi della politica sono davvero stretti: l’endemica crisi dei partiti, le incertezze dei gruppi parlamentari nuovi e persino la scarsità di risorse conducono alla rinuncia delle grandi visioni d’insieme e alla loro sostituzione con una costante sequela di piccoli provvedimenti, paradossalmente più facili da finanziare, che viaggiano su decreti legge sempre meno urgenti e sempre più dipendenti dalle prerogative delle burocrazie di costruire misure ad hoc.
La somma di interessi particolari, anche dei più legittimi, non si traduce in interesse generale: a quando una riforma elettorale che garantisce l’interesse dei cittadini e non delle varie lobby nascoste dalla burocrazia? A quando una riforma del mercato del lavoro e delle professioni in chiave europea e non di obsoleto tipo ordinistico (cfr. riforma dell’Ordine degli Avvocati)?
La riapertura delle Camere nel 2014 ci porterà vere riforme e nuove elezioni per gestire al meglio il semestre europeo con la Presidenza italiana?
prof. Fabrizio Traversi
Presidente Nazionale APIEUROMED